mercoledì 29 maggio 2013

Il mio tempo per una lobotomia

Parlare di film è come tentare di dire l'amore: una parola è poca, due sono troppe.
Sorrentino è arrivato al cinema che non l'aspettavo: l'ho apprezzato,ne ho mediamente parlato, ma me ne sono uscita con quel non so che cosa all'altezza della gola ( proprio lì, dove osano i groppi ed i rospi). Ho provato, nei giorni successivi, a cercare la risposta nella sceneggiatura, in un giro random di immagini online, nel libro fotografico, ma nulla. Quel non so che cosa restava senza nome, nebulosa martellante in testa.
Poi stamattina mi arriva Filippo Facci e la sua recensione: un'urticante caterva di critiche, incentrate sul binomione bellezza/bruttezza, che  invece di farmi solo incazzare  mi hanno portato al nome della scia sorrentiniana che andavo cercando: l'inconsapevolezza.
Bellezza o bruttezza non dominano il mondo, l'inconsapevolezza sì.
Chi nasce inconsapevole difficilmente potrà scoprirsi infelice, ingrassato, fallito.
Chi nasce inconsapevole non ha il peso di giorni vuoti sulle spalle, li vive e beato affoga nel suo nulla.
Chi nasce inconsapevole potrà vedere tutto, ma non guarderà mai.
Chi nasce inconsapevole è una fucina di bellezza o bruttezza supremi.
Chi nasce inconsapevole non potrà mai essere un Gepy.

Nessuno dovrebbe mai avere così tanto tempo per capire di che mediocrità è fatto, oppure dovrebbe solo devolverlo, una sorta di 8x1000 alle persone brillanti.




Se l'inconsapevolezza fosse un fotografo, sarebbe  Dougie Wallace : niente più pochezza umana sotto i tappeti.

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